All’alba, avanzo a passi veloci tra paesaggi conosciuti, sulle mura esterne del mio castello, a Hochgobernitz, perché nell’aria fresca dell’autunno tutto mi appare più nitido ed esatto. Anche il grottesco dell’esistenza. Del resto, questo è l’unico posto in cui la solitudine mi sia sopportabile. Sono già in piedi perché i rumori che si sono insediati nella mia testa dopo lo spettacolo di un’alluvione non mi fanno più dormire e non smettono di proiettarmi dentro la mia morte. È come se gelassi dall’interno, come se fossi interamente costruito contro la realtà. Mi ripugna l’ordine e la cultura, lo Stato, la stupidità, i modi di dire, le malattie, le persone prive di percezione, il lessico represso. Se parlo da solo è perché non ho mai incontrato un interlocutore migliore di me stesso. In biblioteca, mi scopro a estrarre involontariamente gli stessi libri che leggeva mio padre. Ma mio padre e molti altri Saurau si sono suicidati. A me, vedovo, non è rimasta che la compagnia catastrofica di figlie e sorelle. Il mio unico maschio vive a Londra e tornerà per liquidare tutto. Il castello, i boschi, l’azienda forestale vanno in rovina, ma nessuna inserzione sui giornali locali mi farà trovare qualcuno che possa amministrare il labirinto dei miei pensieri. Sono stato espulso dal sistema di numeri che regola il mondo e ora ne cerco la forma perduta, interrogo la mia geometria interiore, l’interpretazione letterale delle parole, i loro strazianti rimandi. Perché tutto è un’analogia continua, che mi fa disperare, e perdere. Sono i nessi violati a produrre il caos. I medici mi credono pazzo, vittima di perturbamenti, invece perseguo soltanto delle somiglianze. La verità è che gli esseri umani sono totalmente incapaci di amare e la tragedia è che nulla muore mai fino in fondo.



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