Un capitano belga almanaccò il mio rimpatrio nel Romanzo con le carte dei tarocchi, un secolo dopo la prima avventura: come demiurgo giocoliere eremita… perché i naufragi possono ripetersi, e i loro illustri superstiti tornare con lo stesso nome, ma sotto altra luce.
Era la notte tra il 29 e il 30 settembre 1759. La Virginia, una nave in cerca di fortuna verso il Nuovo Mondo, stava per colare a picco e restituirmi altri ventotto anni, due mesi e diciannove giorni per ragionare sulla mia sorte. Con la consueta dotazione: un’isola di nome Speranza, l’Evasione d’una zattera, un aborigeno da civilizzare. Ventotto anni per ricostruire la mia città-giardino, approntare il censimento delle tartarughe, riscrivere la Costituzione e aspettare il passaggio di un’altra nave.
Quando finalmente una scialuppa della Whitebird venne a salvarmi, giusto giusto in orario per andare ad assistere alla tempesta di una rivoluzione nel Vecchio Continente, vestivo ancora di pelli di capra e avevo la barba lunga. Ma a differenza dell’altra volta, di fronte al plenipotenziario della nuova epoca storica, sulle mie labbra germogliarono inattese parole simili a frutti giunti a maturazione. Il gran rifiuto di salire a bordo. La mia ribaltata e solare proposta di felicità.



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