Arrivai un giorno distribuendo palle di vetro contro il mal di testa: un gitano barbuto dall’aria triste con cappello ad ali di corvo, antiquato panciotto di velluto, mani di passero e sguardo che la gente definì asiatico perché credeva che vedessi l’altro lato delle cose. Ogni volta che tornavo era la meraviglia d’una calamita, d’un astrolabio, d’una dentiera, d’un atanor, d’una dagherrotipia, e persino d’un flacone che restituisce i ricordi.
I bambini mi ricordano al davanzale luminoso di una finestra che racconto loro di viaggi fantastici con voce cavernosa oppure sepolto in un laboratorio d’alchimia come una divinità millenaria, le rughe invase dalla muffa. Anche la solitudine della morte mi era stata intollerabile e per questo la mia tribù mi aveva ripudiato.
Quando un fiume mi portò definitivamente via, si bruciò mercurio per tre giorni. Nella mia ultima stanza, lasciai pagine e pagine di pergamene dove avevo trascritto in sanscrito una storia di demoni, predizioni e ritorni, negata per cento anni alla lettura.



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