Avevo l’aria di un contadino siciliano: spalle robuste e vestiti scuri, passo rapido ma svagato e un fondo di misantropia. In realtà ero solo un medico senza Grazia, che odiava la morte, il male e l’infelicità, e non vi si abituava.
Dalla finestra della mia abitazione, certe sere, guardavo in silenzio la mia arida città dove i topi erano venuti a morire. Ai cinematografi di Orano davano sempre lo stesso film e per i marciapiedi giravano eroi insignificanti e sbiaditi e amanti che l’emergenza aveva separato, com’era capitato a me e a mia moglie.
Educato dalla miseria e dalle difficoltà, mi ubriacai di nausea e abnegazione per combattere l’epidemia. Mi diedi da fare in ogni scuola-ospedale. Attraverso ogni siero giunto dalla Francia. Anche a costo di restare senza speranza, solo con ciò che si sa e si ricorda. Col nudo sentimento del mio dovere e della mia rivolta. Come un anonimo cronista di tempi tristi e infermi, contemporaneo di pestilenze ed esili che lasciano cambiati, per quanti oblii li seguiranno.
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