In un logoro dagherrotipo sono ritratto come un generale spaventato, la camicia dal colletto duro e i bottoni di rame. Ma tutti, a Macondo, mi rammentano legato al castagno davanti la mia casa, sotto una tettoia di palma. Mi passavano davanti e mi salutavano come si saluta un imponente patriarca, anche se con infinita pena.
Da giovane la mia forza era stata leggendaria: potevo abbattere un cavallo tirandolo dalle orecchie e non c’era strada, nel mio paese, che io non avessi tracciato. Sognavo case con pareti di specchio e tetti di zinco, e mandorli e acacie ai lati.
Ma nessuna delle mie favolose intraprendenze mi riuscì mai: trasformare i metalli in oro, trovare la pietra filosofale, aprire una via per il commercio, costruire la macchina della memoria, fotografare Dio.
Di tanta inquietudine non mi restò che la tristezza di scoprire che al mondo non erano rimasti altri giorni che una serie interminabile di lunedì. Fino a quando non cominciò a cadere una pioggerella di minuscoli fiori bianchi.
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