Per alcuni, i siciliani migliori sono quelli di poche parole. Io ero tra questi. Vittima di un matriarcale esubero d’affetto, il mio carattere riassume un’intera nomenclatura della timidezza: ho la triste metodicità delle persone oneste, mi accompagno a un dignitoso celibato, sono gentile fino all’afasia e al tempo stesso cocciutamente saldo ai miei giudizi. In politica voto per i comunisti, ma con scettica lungimiranza, e verso le donne nascondo una segreta e ottenebrante vulnerabilità. Quanto basta per farmi accreditare una patente di stramberia e di stoltezza.
Ma il mio peccato più grave fu quello con cui uscii dal limbo degli oziosi circoli serali che mi conteneva: la fatale e stupefatta curiosità di leggere una lettera anonima sottosopra sul banco di un farmacista. E accorgermi da quella prospettiva che si trattava di un ritaglio dell’Osservatore romano.
Un gesto gravido di conseguenze per chi abita una regione di alfabeti capovolti come la mia, dove da tutti è risaputo che l’indizio della verità è sempre nel rovescio di ogni parola.
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