Consumo il tempo sempre in cucina, nella mia casa di campagna, tra fondi di caffè e mangime per i tordi. Il mio tavolo è coperto di fogli e indirizzi, biglietti, lettere, cartoline… l’immensa e patologica corrispondenza che ho intrapreso con il mondo. Scrivo, scrivo, e sono diluvi di notazioni, dispacci esistenziali, cronaca atomica di un fallimento.
Scrivo del mio scriteriato ottimismo, dell’incontenibile desiderio e dell’ira triste che appesantiscono la mia bocca carnosa, dell’eloquenza del cielo stellato, di questa strana convalescenza.
Scrivo di quando mio padre, un ebreo russo, contrabbandava alcolici e non riusciva in niente. E del mio primo matrimonio. Di come rinunciai alla sua stabilità. E del modo in cui la mia seconda moglie mi lasciò per un amico, chiedendo che venissi internato in una clinica psichiatrica.
Scrivo della tutela che mi è stata negata per i figli. E del corpo di Ramona. Scrivo agli amici, ai parenti, ai giornalisti, ai politici, e persino ai morti. Per via di una necessità che mi tiene in ostaggio: di chiarire, di rettificare i tanti refusi della mia esistenza e, laddove sia possibile, chiedere ammenda.



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