Poi veniva la brutta stagione. E la legna i miei abitanti dovevano portarsela a spalle, lungo scale male illuminate, nelle stanze di alberghi a poco prezzo. Non era una vita facile. Tra il 1921 e il 1928 si tirava avanti anche con meno di dieci franchi al giorno, ma a chiunque vivesse al Quartiere Latino poteva capitare di fare colazione con Ezra Pound o con la signora Stein, o di pranzare con Joyce, o di ubriacarsi con Francis Scott Fitzgerald. Tutti quegli scrittori si ritrovavano al Café des Amateurs o al Deux Magots o alla libreria di Sylvia Beach, sulla Rive Gauche. E la domenica andavano a vedere la boxe oppure le gare di ciclismo, al Velodromo d’inverno. Qualcuno si spingeva a cercare fortuna alle corse dei cavalli; qualcun altro portava a spasso se stesso sui quais.
Nulla era semplice, allora: né l’amore, né la miseria, perché da giovani si appartiene tutti alla stessa generazione perduta. Eppure da me finivano sempre per tornarci, come se nelle mie strade abitasse il loro destino. E il loro destino fosse quello di scrivere, a matita e a stomaco vuoto, su taccuini dalla copertina blu, osservando la gente per strada da un tavolino di marmo, con in tasca una castagna amara e una zampa di coniglio per portafortuna. Come se scrivere potesse guarirli da tutto. Prima che il tempo votasse ogni fiesta alla morte.



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