In un baretto d’artisti di New York mi trovate al banco, a farneticare da solo e a bere gin e angostura. Vengo da un pianeta di nome Anthea, cosparso ormai di detriti atomici e senza più fonti d’energia. Avevo carburante per un solo viaggio. L’ultima speranza per quel che restava del mio popolo. E anche per salvare la Terra dalla stessa sorte.
Una missione preparata con cura, la mia. Quindici anni a studiare le trasmissioni televisive della classe media americana. A imparare classifiche del baseball, e marche d’automobili, e altre cose inutili. A esercitarmi a sopportare la forza di gravità. Se non ci credete, nel Kentucky c’è un contadino che vi mostrerà per pochi dollari la mia navicella monoposto.
Ma osservatemi bene: sono alto, esile ed esangue come un elfo, il volto quasi femmineo. Sembro un uccello senza peso dalle dita lunghe e sottili, un migratore stanco, un Amleto dai capelli bianchi, uno straniero gentile. Se poteste vedere una radiografia della mia struttura ossea rimarreste stupefatti perché non ho coccige né sterno. Il mio corpo non è provvisto di peli o unghie, e non ho bisogno di dormire: i miei occhi hanno iridi verticali e ipersensibili, come quelle dei gatti.
Osservate il mio sorriso strano e lieve, d’una malinconia ultraterrena. Ascoltate la mia lingua sconosciuta, liquida, triste, piena di vocali. Ma non vi avvicinate, perché ho paura e non so più qual è il mio scopo. Sono diventato più umano degli uomini. Provo solo nostalgia, e mi ubriaco, e piango per il destino scellerato del mondo.



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