Mi si può incontrare sotto ai portici della stazione di Bonn o nei corridoi della metropolitana, nascosto in una turba di dilettanti, la faccia bianca di trucco, il naso lungo, la giacca nera di tweed e un pullover azzurro. A chi me lo chiede, dico che sono lì per un incidente interiore e che faccio raccolta di attimi. Nell’attesa impossibile che torni una donna alla quale una volta scaldai le mani gelate nel cavo delle ascelle. Subito dopo ti farò una smorfia. Per scacciare il mal di testa e la malinconia, e il pensiero della morte che sempre mi accompagna, perché per me morti sono i vivi e vivi i morti. Per allontanare l’aria viziata che mi circonda, la liturgia cattolica e borghese di cui non sono stato all’altezza, la stessa che percepivo attraverso i fili del telefono nelle familiari voci d’una società abituata a risparmiare sulle coscienze, sui sentimenti e sulla memoria come sui conti in banca. La normalità del matrimonio mi fu interdetta, insieme all’ipocrisia falsabigotta dei miracoli economici e all’oblio del nazismo.
Ogni tanto qualcuno mi getta una monetina. In fondo, sono solo un «augusto», il clown sciocco, il saltimbanco contestatore, eretico e miscredente, «non iscritto nei registri anagrafici di nessuna chiesa», quello che esce di scena con un inchino amaro e ringrazia per l’umanità del mondo.
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