I miei denti sono gialli di tabacco, i baffi duri, la pelle olivastra, le labbra carnose; un occhio tocca quasi l’orecchio, l’altro ne è distante, a favore d’uno zigomo aspro e scabroso: nell’insieme ho un viso gonfio di orgoglioso rancore, fisso in una smorfia superba e insolente.
Il mio è il ghigno del gran chingón, dell’uomo che ha travolto il destino con le proprie mani, e ha fatto strada, la mascheraccia del saccheggio, della diserzione e della soverchieria, di chi ha tradito se stesso ed è sopravvissuto, e ora, dal capezzale di un vecchio stanco e malato, tra l’odore delle medicine, le preghiere di un prete e l’odio bisbigliato della moglie e dei seguaci, rivede la pellicola bruciata della sua innocenza.
Di come fui battezzato da mulatti; di quand’ero capitano dell’esercito di Carranza; delle guerre di Pancho Villa e di Zapata; del giorno che toccai i fianchi di Regina e di quello in cui la persi; della fine del mio unico maschio; di quando divenni deputato… l’autobiografia di un Messico feroce, ambizioso e trasformista, com’è sempre il potere. La misura di quanto gli ideali giovanili possano decomporsi.



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