All’Ospedale Mentale di Stato trafficavo dalle parti del ripostiglio delle scope. La mia storia la raccontano ancora tra i ricoverati e il personale in servizio come una leggenda.
Tutti mi chiamavano Capo Ramazza, perché avevo sempre una scopa in mano e lavavo i pavimenti. Un mezzosangue di quasi due metri, sordomuto e con i capelli neri e oleosi di pellerossa.
Stavo dentro da più tempo di tutti, sin dalla seconda guerra mondiale. Anni e anni senza dire niente, a pulire solo corridoi. Ci pensò un tipo rosso di capelli, con lunghe basette, un sorriso diabolico e l’andatura spavalda a ridarmi la voce. A me e a tutti gli altri pazienti: i Cronici, gli Acuti, le Sedie a Rotelle, i Vegetali. Un boscaiolo attaccabrighe e giocatore d’azzardo che per primo venne a sfidare la Grande Infermiera. E ogni idea di normalità. Finché non lo ripararono nella testa ed eliminarono il disturbo.
C’è chi dice che quella notte staccai a mani nude un lavabo di marmo e lo gettai contro una finestra, e fuggii verso il Canada. E che quella fu l’ultima volta che mi videro.
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