Sono salito a Milano alla maniera dei vecchi anarchici, con l’incombenza di far saltare in aria il torracchione di vetro e cemento dell’impresa che ha ucciso i miei amici minatori, in Maremma, e che «oggi aumenta i dividendi e apre a sinistra». Basterebbe inserirvi un tubo flessibile e farvi affluire il metano miscelato con aria in proporzioni tra il sei e il sedici per cento. Ma già altri torracchioni vengono su, da ogni parte, e la città è avvolta da una «fumigazione rabbiosa» che chiamano nebbia. Nessun grisù la spazzerebbe via.
È la «diseducazione sentimentale in Italia ai tempi del Miracolo»: la società della grana e del dané che si puntella, dei padroni che ti buttano via a calci nel culo, della gente che se cadi a terra, ubriaco e ferito, si scansa appena, dei tafanatori che ti salassano finché non sei morto, delle segretarie che slabbrano le vocali e ti marcano a uomo, dei tanti gusci vuoti che si incontrano per strada, quelli come te: baccelloni, ultracorpi, ectoplasmi. Mentre il traffico impazza, astioso.
Per sopravvivere devi serrare le finestre e chiuderti a doppia mandata in camere mobiliate a fare l’amore con Anna, se ti lasciano in pace, o a tradurre come un ossesso i libri degli altri, per guadagnarti il pane. E nelle pause buttare giù quanto hai in corpo.
La «solenne incazzatura di un’ostrica malata».
E un invito: a «non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi e anzi a rinunciare a quelli che si hanno».



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