Per le folle naziste sono stato un idolo delle onde corte. Per l’umanità un famigerato antisemita e uno dei più fottuti bastardi che siano mai esistiti. Per Franklin Delano Roosevelt e altri due funzionari del governo statunitense una spia eroica e solitaria, ma nessuno può più testimoniarlo. In tutti i casi, io, Howard W. Campbell, fui un attore superbo, tanto da scoprire a mie spese che si finisce sempre per essere quel che si fa finta di essere, per cui bisogna avere molta attenzione per le proprie imposture.
Ora sono solo un residuato di guerra, una vecchia scarpa sgangherata chiusa nel carcere di Gerusalemme. La parte di me che voleva dire la verità è stata adoperata per spargere menzogne; i miei ricordi sono stati trasformati in cibo per gatti; l’artista che avrei voluto essere è uno squallido scrivano che cerca disperatamente di raccontare la propria insignificante versione dei fatti, sempre sul filo tra accusa e scusa, colpa e discolpa, realtà e sogno. La mia storia è un capolavoro di ambiguità.
In una foto ufficiale del 1941 appaio luminoso come un Gesù rionale, con un alone di crema emolliente intorno alla testa. A quel tempo lavoravo agli ordini del dottor Goebbels, incontravo Eichmann, avevo una moglie bella e innamorata e le mie trasmissioni radio in lingua inglese di propaganda nazista erano ascoltate dovunque.
Adesso ogni parola dei miei discorsi mi condanna, anche se vi assicuro che nascondevo messaggi cifrati nei colpi di tosse e nelle pause. Ma ho imparato a non sentirmi mai colpevole. Mi sono sempre reso conto di tutto quello che facevo e so che non posso provare la mia innocenza. Avevo sperato di essere soltanto ridicolo, ma «viviamo in un mondo in cui essere ridicoli non è facile». Un universo alla rovescia dove i plagiatori sono processati per originalità. La mia è la tragedia dell’irriducibile ambivalenza della natura umana, di tutte le sue contraddizioni, di tutto il suo smarrimento.



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