La scheda che di me si conserva ancora negli archivi dell’Arma suona così: «Capitano Bellodi, nato a Parma, di tradizione repubblicana e di convincimento antifascista, partecipò alla guerra civile e da quell’esperienza ricavò saldi e permanenti ideali di giustizia e libertà. Di sufficiente fantasia e di eloquio efficace, conservò sempre modi gentili e un pacato dominio di sé che gli valse il rispetto anche dei suoi nemici. Trovatosi in Sicilia a indagare su un banale omicidio di gelosia, seguì cocciutamente un’altra pista e molestò per errore rispettabili cittadini, perché persuaso dell’esistenza di un’associazione criminale denominata mafia e della sua intrecciatissima subordinazione al sistema politico. Pensava, il Bellodi, d’essere caduto al centro dell’osservatorio migliore per capire i futuri e antichi mali dell’Italia intera.
«Con solerzia che credeva lucida e da uomo che aveva preso parte a una guerra civile, si mise a studiare solitariamente quella particolare deroga dalla Storia toccata in sorte ai siciliani, affrancati per secoli da ogni dominio sempre da altri popoli, senza mai proprie Resistenze, e soltanto per cambiare di padrone. Ne investigò il carattere, la cultura, la religione della famiglia. Tentarono in molti, come con altri Don Chisciotte, di dimostrargli che nulla di ciò in cui si dibatteva e aveva creduto esisteva realmente o sarebbe continuato a esistere: la Sicilia, la mafia, la lotta di liberazione… Ma fu inutile. «Tempestivamente sollevato dall’incarico, soffrì di nostalgia per il resto dei suoi giorni».



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