La mattina che mi travolse quella locomotiva, mentre attraversavo il piazzale di smistamento della stazione di Jerichow, avevo ventotto anni, indossavo l’uniforme della Deutsche Reichsbahn e stringevo gli occhi. Lavoravo nelle ferrovie della Germania orientale da sette inverni. Mi ero fatto le ossa come manovratore in una città della costa baltica. Poi mi avevano promosso dirigente regolatore, per la pazienza e la dedizione che ci mettevo. Me ne stavo sempre in servizio, di turno, a redigere i grafici dei ritardi. Altrimenti a casa, a dormire. E solo qualche volta in osteria, con altri ferrovieri.
Molti di loro ancora si chiedono se il mio fu un incidente, o un suicidio, o altro. Li avevo attraversati centinaia di volte quei binari, e i treni li sentivo arrivare anche nella nebbia. Ma il traffico si era triplicato dalla fine della guerra. Dalla mia cabina di controllo ne vedevo passare tanti: gli internazionali, che andavano verso il porto di Amburgo, e i direttissimi per Berlino, i treni per gli operai, i convogli merci diretti al fiume… quell’autunno non mi riuscì di tenerli tutti puntuali nelle due direzioni, come chiedeva l’orgoglio della mia Repubblica Federale. Per quanti fossero i pezzi in cui ripartissi i minuti, molti treni li dovevo far aspettare prima del ponte. Era il 1956: l’Armata Rossa invadeva l’Ungheria mentre i francesi e gli inglesi bombardavano Suez. Io guardavo l’orologio che mi aveva regalato Gesine, ma era inutile: il tempo non si faceva più controllare. Come tante altre cose.
Prima di essere assunto come manovratore, avevo lavorato con i cavalli e venduto in nero la grappa ai soldati sovietici. Con Gesine, dopo la guerra, eravamo cresciuti da fratello e sorella nella casa di suo padre che mi aveva insegnato a modellare il legno, ma neppure il mio amore per lei riuscivo più a controllare. Quando se ne era andata dall’altro lato del confine, e aveva trovato un posto alla Nato come interprete, l’avevo raggiunta, ma non per chiederle di arruolarsi nel controspionaggio comunista. Io volevo solo vedere se esisteva un posto dove anche i sentimenti potessero essere in orario. Me ne tornai con la coscienza che è sempre una questione di scambi, di deviazioni, di rotaie bagnate o divelte. L’edificazione del socialismo, l’ingiustizia dell’economia capitalista, l’intreccio del vero e dell’amore… tutta una faccenda di piovisco e di fumo, di umidità: una catasta di legname e dei mucchi di carbone sotto un cielo bianco e diviso.
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