Sono avvolto da una coperta e sprofondato in una lurida poltrona che scricchiola, da cui sbucano ciuffi di stoffa giallastra. Al quarto piano di un albergo a poco prezzo. Ho perso o mandato in malora il mio ultimo strumento e sotto la coperta sono nudo, con le mani scheletriche e il respiro tronco, senza più soldi, senza sassofono, immerso nelle mie ossessioni.
Ma se mi portate una bottiglietta di rum e un pacchetto di Gauloises i miei denti scintilleranno. I denti bianchi di un povero cristo malfermo, sregolato e indolente, con la pancia gonfia. Basterà lasciarmi parlare per riconoscere tutto il mio maledetto e incomprensibile talento. Da altre parti mi chiamano con un soprannome alato: Bird, oppure Charlie Chan, o Charlie Parker… Ma quello che la gente applaude, vi dico, non vale niente. È appena la contraffazione di un desiderio. Solo il resto conta. Quel centro che più si persegue più sfugge.
È la ragione per cui la mia musica è piena di fughe, di tentativi disperati. Arrivare a suonare quello che si è davvero, aprire la porta del tempo. Perché suonare è come stare in un orologio. Il tempo è un ascensore, un viaggio nel metró. Le stazioni sono i minuti. Solo la musica può tirarci via o metterci dentro al tempo. Queste sono le cose difficili, non i volteggi dei trapezisti o improvvisare fraseggi in dodici tonalità. Guardare è una cosa difficile. Suonare senza dopo è una cosa difficile. Senza che ci sia un dopo. Dare una proroga e un respiro alle cose. Muoversi nelle visioni o in una moltitudine di amori, come in un verso di Dylan Thomas. Soffrire tutto il tempo.
Forse per questo quello che suono lo sto suonando domani. In un istante dove non ci sia altro che sempre. Chi mi ha sentito soffiare dentro allo strumento, seduto su una scatola di cartone, non ha più dimenticato quanto la forma del mio sassofono somigliasse a un punto interrogativo rovesciato.



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