Se notate un’armatura bianca e senza graffi che, seduta sotto un pino, dispone pigne a forma di triangolo non abbiate tema d’errore: quello sono io, Agilulfo, il cavaliere che non c’è. Inutile alzarmi la visiera: non vedreste che vento, zanzare e raggi lunari. Esisto solo per un’estrema tensione della volontà. Non ho bisogno di cibo o sonno, sono immune da trasalimenti amorosi e come soldato sono un modello inarrivabile, pieno di zelo per i regolamenti e i codici dellEvo burocratico in cui vivo. Mie sole debolezze: la luce serale in cui si perde ogni garanzia che il mondo esista e un fastidio, un fastidio, per l’approssimazione e la grossolanità di tutto. È questa la mia strana e segreta pena. Soffro di ciò che non conosco e per quest’impossibilità che ho di distrarmi o di scompormi. Baratterei il demone della perfezione che abita il mio spazio cavo con il corpo di qualsiasi soldato, anche il più sporco, fragile o manchevole. Di fronte a quest’ultimo esercizio d’esattezza non trovo soluzione: è davvero assurdo che l’integrità o l’estrema coscienza di sé coaguli il vuoto. Altro scompiglio la vita, e senza geometrie.
Gurdulù è il mio negativo. Non ha alcuna consapevolezza di sé e si immedesima in ogni cosa o animale che incontri. È, volta dopo volta, anatra, rana, pero, cavallo, farfalla, pentola… In realtà, non possiede nemmeno un nome perché i nomi gli scivolano addosso come pioggia e dovunque vada è già conosciuto. Il suo, più che un nome, è un verso, un borborigma. La bizzarria è che al parapiglia della vita la sua dappocaggine si addica più di ogni rigore e diligenza. A uno sciocco buffone mammalucco e babbeo protagonista di mille avventure come lui resta almeno la possibilità che qualcuno gli insegni a essere un uomo.



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