La sera, esco in giardino in redingote e stivaletti e dalla settecentesca balconata di una villa cerco l’ordito delle comete in cielo. Ho gli occhi chiarissimi. Gli occhi di un cacciatore di simmetrie e di cristalli confinato in una terra senza armonia. Ballo con leggerezza e mi muovo come un ultimo ciclope: sono Ulisse e Polifemo in una sola figura. Il dissidio mi appartiene come un’eredità: ira e cortesia, istinto alla pace e scontento perpetuo, bestialità e perfezione, conservazione e cambiamento, simpatia e disprezzo, immobilità e rovina.
Vivo in un’opulenza scheggiata dal fastidio che sento di tutte le meschinità umane, tra capricci carnali e visioni improvvise. Il sentimento della caducità mi abita ossessivamente. E una stanchezza millenaria, un disincanto di tutto di fronte alle eterne capriole del potere, all’arrivo danzante dei nuovi invasori e dei nuovi regni che osservo da qui.
Ogni giorno mi ungo i capelli con lozioni di cui mi faccio mandare intere casse da Londra. Per nascondere con eleganza la mia «terrificante insularità d’animo». E non sentire il puzzo delle iene e degli sciacalli che mi aspettano fuori dal cancello.
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