Avevo il fisico di Porthos, il nome d’un altro moschettiere e l’abitudine di indossare guanti gialli e occhiali d’oro. Mi si incontrava spesso al cinema o all’Opera o a zonzo per Ferrara: cappello bordato di bianco, bastone e cappotto con bavero di opossum, Corriere della Sera in una tasca e lane inglesi. Ma sceglievo solo posti in platea e in treno viaggiavo in terza classe. D’estate, scendevo al Grand Hotel di Riccione da rosse Alfa Romeo tipo Mille Miglia o da verdi Lancia Asturia, con berretto scozzese e lenti da secondo pilota, lo smoking in valigia e al posto di guida sempre un biondo efebico ragazzo. Ma dietro alla mia eccentrica pinguedine tutti mi conoscevano come un medico amabile, colto e tranquillo, benvoluto per il riserbo e la cortesia con cui amministravo la mia professione e la mia vita privata.
Mio malgrado, gli anni Trenta ruotavano veloci sulla brace di irripetibili vacanze, le ultime prima del diluvio. Denunciavano ogni fragile patto tra discrezione e scandalo, alterità e rispetto; univano nella diversità ebrei e omosessuali recando a entrambi intolleranze e devastazioni. E simmetrie assurde e tragiche, come quella che ebbe la mia sorte, di amante vilipeso e vecchio disonorato.
I miei occhiali li avrebbero spezzati prima il manganello dei pettegolezzi, poi i capricci di un giovane dal fisico di pugile. Della mia disgrazia fu data notizia anche sul giornale. Morto annegato, c’era scritto, perché a nessuno era lecito sopprimersi nell’Italia fascista. Tutto, per me, era cominciato in una laguna per finire nelle limacciose acque del Po, presso Pontelagoscuro.



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