Per il mio amico Sal, il mio è un altro dei nomi che si possono dare all’irrequietezza. Nacqui sulla strada, a Salt Lake City, nel 1926, sopra un vecchio macinino, figlio di un lattoniere che finì alcolizzato e vagabondo. Crebbi per un terzo in una sala da biliardo, per un terzo in carcere e per un terzo in una biblioteca. Ma la mia criminalità fu sempre gioiosa, così come lo era la mia intelligenza. Mai suscettibile né sarcastica. Un’eccitazione sfrenata per tutto, l’amore, l’amicizia, il movimento, che mi rendeva ancora più azzurri ed elettrici gli occhi. E snelli i fianchi.
La mia storia è un affare di macchine rubate e lanciate sull’asfalto nel mare della notte, di riformatori, tavole calde, pulciose camere d’albergo e ponti rotti alle spalle, e carri merci tristi, ed empori a prezzo unico. Matrimoni, divorzi, figli illegittimi. Scorribande e ricordi di una generazione che bruciava nel silenzio e nell’oscurità, al tempo dispari del bebop, ma era pazza di vita, e voleva essere salvata, e parlare con tutti.
Sal mi ricorderà nudo in cima a una collina che benedico San Francisco, come un sindaco pagano. L’ultima volta che mi vide, svoltavo l’angolo della Settima Avenue, da solo, le mani dentro a un cappotto tarmato.



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