Nelle vecchie foto, porto il nome d’una stella e di un re, sono scuro d’occhi e di capelli e con zingaresca felicità vagolo per la mia isola popolata da giovani matrigne e attempati Barbablù, masnadieri e lucertole turchine. Giù alla spiaggia, mi si sente ancora salmodiare lunghi fischi o tanghi argentini o musiche francesi, finché il sole non scompare. In attesa che da qualche dove ritorni mio padre, col suo favoloso sorriso di capra. Naturalmente, ho per dimora un castello arcano e per imbarcazione una torpediniera: la mia è un’età illustrata, strappata dalle pagine di un libro.
Ma, a ben guardare, in così rigoglioso giardino si nascondeva il cerchio di un cratere, un segno leggero sulla rena, l’angiporto d’una precoce solitudine. Come se il mio atlante fosse già destinato a restringersi nel giro di una circumvesuviana, la mia adolescenza a consumarsi in un turbamento incestuoso e l’isola del mito a lasciare il posto al volto finalmente adulto delle cose, orfano e banale.
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