Quando si nasce di venerdì, ma con i piedi nel sabato, come me, se si è allegri di dentro si è tristi di fuori e la vita sarà sempre uno spaesamento, un’inadeguatezza, una nostalgia. Se poi si nasce nel Mutúm, uno scoglio dell’entroterra del Brasile, allora s’impara presto che l’infelicità è lo stato delle cose. Fuori ci sono le foreste, che fanno paura, e la pioggia, e i giaguari; dentro, la tisi e l’incomprensibile violenza degli adulti, le loro strane parole.
Con i miei otto anni nell’unico paio di sandali, un santino intorno al collo e un’aria malaticcia e bruttarella, ho avuto davanti agli occhi sempre un velo d’afflizione e d’ignoranza. La varietà mi rattristava, il tempo era un vuoto di bottiglia, e nessuno che mi sapesse dire bene cos’è un flauto, un teatro, il mare. Solo raccontare storie era un passatempo che valeva la pena, e di curiose me ne venivano, ma insieme a ricorrenti domande, alla rabbia per ciò che potrebbe essere e non è mai.
Fino al giorno in cui il dottor Lorenço mi prestò un paio di occhiali e tutto, di colpo, smise d’essere opaco e spugnoso. Ma era il momento di partire, e quell’estremo sguardo di lucidità e di commozione il mio commiato.



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