Della mia ritrosa follia s’accorse un mercante di tempo frenetico e miserando, che gli uomini chiamano in tanti modi: diavolo, o demonio, o semplicemente Lucifero. Io, ero del tipo di uomini che lo interessavano: addestrato al gelo, al genio e all’insofferenza, intollerante anche alla luce, accompagnato soltanto dai sonetti di Shakespeare e consunto dall’emicrania. Il contratto non c’era nemmeno bisogno di riscriverlo, solo qualche lieve modifica. Ventiquattro anni di assoluta creatività: il dono di suonare ciò che non esiste ancora, di rendere diseguali le cose uguali. In cambio, alla scadenza, gli avrei dato l’anima che risiede nella ragione e come segnatura la croce uncinata d’una malattia venerea.
Lo stesso prezzo sottoscritto in quegli anni da un intero popolo, dalla mia Germania hitleriana per cui non riuscii che a comporre un inno rovesciato alla tristezza mentre intorno a me si scatenava un inferno desertico e polare e una meningite recideva pure l’eco di una giovane spiga oscillante: il mio nipotino Nepomuk. Nel pudore del fantastico in cui si vive e sino al dubbio straziato se ci possa essere speranza al di là della disperazione.



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