La nostra è stata l’ultima avventura dell’infanzia. La fine dell’innocenza per un pugno di naufraghi bambini perduti su un’isola di corallo e immersi nel sogno confuso di un altro mondo possibile, dove niente sia più al suo posto.
Io, Ralph, ero il più alto. Avevo dodici anni. Ero bello, calmo, con la bocca e gli occhi dolci e le spalle larghe. Un ciuffo biondo mi cadeva sulla fronte. Dormivo su foglie secche che facevano rumore e detenevo la conchiglia bianca della legge. Non pensavo che a impartire regole e a come raggiungere la salvezza comune.
Io, Jack, impugnavo una lancia con le mani sporche di sangue e il volto stropicciato di creta sotto ai capelli rossi. Ero magro e ossuto, la faccia piena di lentiggini e il corpo attraversato da una tensione selvaggia. Mi sentivo spavaldo, arrogante e indisciplinato. Sempre sporco di terra bruna e gocciolante di sudore. Con occhi chiarissimi pronti alla collera e la voce di uno che sapeva il fatto suo.
Sotto un’unghia di luna, una testa di maiale fissata su un palo parlava a entrambi. Era il signore delle mosche, la bestiaccia, la cosa-che-striscia dentro la nostra coscienza. Raccontava la favola primordiale dell’eterna lotta tra ragione e istinto. Rivelava quanto infantile e barbarica sia la società degli adulti. Ci educava alla morte e all’odio, in un’aria piena di farfalle e di terrore. Era l’anticipazione visionaria e mitica del destino di un’altra generazione che ancora si chiede cos’è nelle vicende umane che manda tutto a rotoli.



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