Abito in uno scantinato del tempo, a New York, un buco caldo dove tengo accese 1369 lampadine perché la luce mi è necessaria come l’aria. Fuori nessuno mi bada, la gente rifiuta di vedermi, la realtà mi diserta e le mie mani scure non lasciano tracce né ombre.
Eppure non chiedo che il contagio scomposto della vita. E di riavere indietro la mia identità, per quanto lacerata, e molteplice, e stonata. Solo così potrò guarire da tanta ibernata tristezza. E rimettere insieme i frammenti della mia protesta. Da quando venni cacciato dal college per ragazzi neri come me ai giorni in cui lavorai come manovale in un magazzino di vernici ed entrai nella Fratellanza per uscirne disperato…
Bastano un paio di occhiali e un cappello di lusso per somigliare a un criminale. Ma per me non resta che l’anagrafe in bianco di un uomo invisibile, costretto a muoversi senza nome e senza diritti in un mondo che non gli appartiene, a invecchiare in letargo nel sottosuolo di una cantina, seguendo la tromba di Satchmo oltre l’ultimo solco di vinile.
What did I do to be so black and blue? Che cosa ho fatto per essere così nero e così triste?
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