Di me hanno sempre detto ch’ero un vecchio strano. Avevo la pelle del viso screziata dal sole, le mani segnate di cicatrici e la camicia che pareva una vela bucata o una carta geografica. Dormivo poco e sognavo leoni.
Da ottantaquattro giorni non tiravo su nemmeno un granchio. Ma già una volta mi era accaduto, e per più tempo. Forse per questo le spalle mi sostenevano ancora salde e gli occhi mi brillavano d’un colore indomito.
Alla Terrazza, mi scansavano come si evita un appestato. Non me ne davo cura. Se mi offrivi una birra, ti chiedevo il giornale e mi mettevo a leggere degli Yankees e del grande DiMaggio. Che importanza poteva avere se ormai nessuno si ricordava di quando avevo vinto a braccio di ferro il gigante negro di Cienfuegos, in una taverna di Casablanca?
Nessuno, tranne quel ragazzo che mi voleva bene. Importante era la mia ostinazione, continuare a pensare al mare come a una donna e sapere che si conoscono tanti trucchi per fregare la sfortuna. Per me, sarà sempre una lotta memorabile, e una passione di crampi e solitudine. Al largo, mi aspettava un gigantesco Marlin, un fratello nell’agonia e nella disperazione, nella capacità di sopportare il dolore. Ma fratelli non erano i pescecani che sarebbero venuti. Perché questa è la regola: che ogni vittoria si riduca in poco tempo a un mucchio di ossa predate dalla corrente; e che la sconfitta sia, invece, sempre «definitiva e senza rimedio».



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