Sono di colore seppia forte, impiastrata di terra e di erba, di tempo e di tabacco, e dello sforzo di generazioni di atleti. Una pallina vecchia, sbattuta, malconcia, segnata dalle intemperie, con il cuoio liso e una venatura vicino al marchio di fabbrica. Un piccolo livido verde che mi ha lasciato un pilone delle tribune del Polo Grounds, quando ci andai a sbattere contro, il 3 ottobre del 1951. I New York Giants affrontavano i Brooklyn Dodgers per una partita che valeva il campionato. In una grandiosa giornata di cielo cupo. L’ultima volta che la gente uscì spontaneamente di casa per qualcosa, si disse dopo.
Al nono inning, il battitore Bobby Thomson mi colpì sicuro, in linea diritta, con un lieve effetto topspin. Io roteai nell’aria sporca di meraviglia dello stadio. Davanti agli occhi di Frank Sinatra. E di J. Edgar Hoover, il capo dell’fbi. Nello stesso momento in cui l’Unione Sovietica faceva scoppiare il suo secondo ordigno atomico in una località segreta. La voce radiofonica di Russ Hodgers seguì la mia traiettoria con un urlo prolungato. Lo chiamarono il botto che fece il giro del mondo. Sorvolai il campo e nelle gradinate fui afferrata da un ragazzino afroamericano che aveva saltato i cancelli senza biglietto.
Da quel pomeriggio la mia è stata una storia di passaggi di mano, un traffico di dollari e di perdite. Fino all’ultima consegna. Nel palmo di Nick Shay, un manipolatore di rifiuti, che mi comprò non per commemorare una vittoria ma un fiasco, il lancio sfortunato di Ralph Branca.
Certe sere Nick allunga una mano ad artiglio tra gli scaffali della libreria dove mi ha riposta, e spreme da me i giorni in disordine della sua giovinezza quando la sua rabbia era un pericolo per gli altri e un mistero per sé. E il tempo non somigliava ancora a quest’epoca senza misura, dove nemmeno il potere ha più significato e non si può stimare la distruzione. Giorni in cui la speranza aveva un centro di sughero leggero come una pallina da baseball ed era capace di scandalosi fuoricampo.



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