Vissi tempi in cui la vita era «piena di goal» e «si moriva meno per incidenti d’auto e più per un futuro imperfetto». Fui l’allenatore più fantasioso che si vide mai in giro: inventai la punta fantasma, lo stopper a quattro zampe, il libero gentile…
Solitamente schieravo dodici uomini, uno di contrabbando. Una volta mi riuscì di metterne in campo tredici, a Melbourne. Ma non per imbrogliare. Solo perché vedere la palla danzare vicino alla porta mi metteva di buon umore.
Ai miei amici ho sempre detto di essere un ricordo di Fellini, in Amarcord. Ma di ricordi miei ne avevo tanti: il bar di Rick a Casablanca, tra il ’39 e il ’44, l’amicizia di Camus, le volte che giocai dinanzi a Stalin e al papa, il Benfica di Lisbona, il Racing di Parigi, la Patagonia, Tangeri, e i libri di Chandler, di Conrad, Péron che fischia un rigore indiretto in Congo, un boia che mi salva dall’impiccagione, le frittelle al dulce de leche…
Parlavo in turco, in castigliano, in polacco e avrei voluto vivere un giorno in più solo per lo spettacolo dei cervi sotto la pioggia sulla collina davanti alla finestra della mia stanza, nel sanatorio per anziani vicino a Neuilly.
Il mio era un campionato di portieri monchi e di giocatori nati storti e guerci. Un torneo di grandi utopie, di dignità e di coraggio. Chi poteva immaginare che con la scomparsa delle ali «sarebbe scomparso un modo di vivere»?
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