Sono della stirpe degli hombre vertical: cappello a tesa larga con una penna rossa consumata nella fascia, la casacca del vecchio battaglione (corpetto di pelle di bufalo, cinta di cuoio, cappa, spada toledana e coltello nel gambale), mustacchi fieri e sguardo gelido e glauco come acqua di pozzanghera, finché non si infiamma di lampi insolenti di rabbia o di malinconia.
Ho un domestico basco e vivo nel retro della Taverna del Turco, la cui proprietaria mi affitta due camere e a volte il suo letto. A Madrid offro i miei servigi di spadaccino mercenario per quattro maravedì.
Mi chiamano Capitano, ma è solo un soprannome conquistato nei mattatoi delle Fiandre, del Levante o in Barberia. Per il coraggio. E la pellaccia dura. E ricucita: dal sopracciglio sinistro alle cosce.
In verità, non sono mai andato oltre il grado di sergente di fanteria. Ma sul mio orgoglio circolano leggende e sonetti di poeti puttanieri e ubriachi. E anche sulla mia gioventù misteriosa. E sui miei nemici: incrudeliti frati dell’Inquisizione e sicari italiani.
Chi fosse curioso del mio volto, lo può riconoscere in una celebre tela di Velázquez, La presa di Breda, dove appaio poco discosto da un cavallo. Come uno che sta solo dalla sua parte. Uno la cui smorfia, nei momenti di pericolo o di tristezza, anticipa sempre una stoccata o un presagio. Uno che vorrebbe battersi, in maniche di camicia, contro la stupidità e la mediocrità di tutti gli imperi, di tutti i secoli d’oro, di tutte le guerre di civiltà e di religione.



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