Il mio naso scende a becco sulla voce scontrosa, gli occhi hanno il colore di certe alghe e le sopracciglia si inerpicano aggressive per l’aria. Ma da lontano si notano solo i miei mustacchi e il pizzetto, e le guance incavate, e la fisionomia alta e magra della martingala. Se non fosse per i cernecchi e la pratica ortodossa, mi si direbbe un nobile dell’Est; invece, per molti sono solo un bandito, un vecchio caprone.
Tutta Varsavia mi maledice e racconta le mie imprese, la roba accumulata con sfacciata e audace fortuna, le tante stranezze, l’astuzia canagliesca e invincibile. Ma la rovina avanza sull’Europa con lo stesso respiro pesante che mi sale la notte nei corridoi della mia casa, insieme alla coscienza che per me non ci saranno eredi né successori. Solo la lunga vigilia di un attacco, di uno scempio, di una diaspora.
Perché io, Meshulam Moskat, sono l’ultimo d’una stirpe tenace di patriarchi solitari e infelici, ammusoniti dalla dissipazione che ci seguirà e dalla crudeltà del tempo.
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