Iniziai a fare spettacoli di strada a New York nel 1953. Tra la Centosedicesima e Broadway, vicino ai cancelli della Columbia University. I primi dollari me li gettarono dentro un berretto italiano, ma la mia immaginazione l’avevo già educata con un lungo tirocinio su un mercantile norvegese e nei bordelli dell’America centrale, meridionale e dei Caraibi. A Roma avevo studiato a una scuola di burattini.
La mia specialità erano gli spettacoli con le dita. Bucavo una pallina da tennis e ci infilavo la punta dell’indice. Il pezzo forte era il processo che inscenavo al medio della mano sinistra: lo dichiaravo colpevole, lo inserivo in un tritacarne e al suo posto lasciavo cadere degli spaghettini di carne cruda.
Il mio Teatrino degli Indecenti fu subito oggetto di culto. Mi processarono per oscenità, ma per qualche anno posso giurarvi che Manhattan fu un’isola felice abitata da giocolieri, violinisti, compagnie teatrali… E donne meravigliose.
Vi confesso che non sono mai riuscito, in tutta la mia vita, a resistere a una puttana energica e solare. La prima che ebbi somigliava a Yvonne De Carlo. Fu all’Habana Vieja: la sua biancheria era rossa, ma alla fine lei mi disse di smontare dal suo corpo in un modo così sgarbato che non lo dimenticai più. L’ultima invece fu Drenka, una croata bruna che trasformai nella donna più disinibita che abbia attraversato l’America. Il mio rapporto con lei fu «di stupefacente impudicizia e altrettanto stupefacente riservatezza». Ma un tumore alle ovaie la portò via in sei mesi.
Ora la mia identità è come se si fosse sciolta con lei o colata via. Non so più da cosa io continui a fuggire o da cosa invece sono fuggiti tutti. Non ho superato nulla, come successe a mia madre con il trauma di mio fratello abbattuto a vent’anni nel cielo delle Filippine. Con lei ancora ci parlo, anche se risiede da un pezzo in un cimitero del New Jersey. Ma sulla scena non sono rimasto che io, l’ultimo burattino, la maschera grottesca, lo spietato antagonista di me stesso. Un vecchio patetico e sentimentale che continua a tremare e ad andare in pezzi. A piangere di terrore e di tristezza.
Ho già scritto i miei necrologi, per quando sarà. In molti pensano che finga e che questa sia un’altra delle mie interpretazioni, ma le mani mi fanno male davvero: osteoartrite, mi hanno diagnosticato i medici.
Con le mie dita deformate, sono costretto ad assistere a quest’erosione disperata di tutto, a questo assedio di fantasmi e di assenze, a questo riprovare la carnalità della guerra, e della follia, e della perversione, e della morte. Una vendetta feroce del destino per un piccolo bucaniere dagli occhi di smeraldo che nelle mani aveva l’unico talento o libertà.



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