La mia leggenda c’è ancora qualche vecchio che la racconta, tra l’Oklahoma e il Sud Dakota. Avevo il nome di un viaggiatore, ma mi chiamavano Walt il Bambino Prodigio.
A insegnarmi l’arte del volo era stato un ebreo ungherese che aveva parole piene di abracadabra e stravaganze. Fu lui a riconoscere nella disubbidienza di un orfano stupido e testardo come me, che avevo avuto il padre gasato in Belgio nel ’17 e la madre sparata in faccia da uno sbirro, il «dono». Per tre anni vissi con il mio Maestro Yehudi, una donna indiana, Mamma Sioux, e un fratellino negro, Esopo.
La mia iniziazione fu atroce e antica. Trentatré fasi, trentatré scalini da superare. Fui sepolto vivo nella terra, flagellato con fruste di cuoio, coperto di miele e di mosche, immerso in vasche d’aceto, appeso alle travi di una soffitta e gettato da cavalli al galoppo… Dovetti persino tagliarmi la falange di un mignolo. Ma a dodici anni già camminavo sull’acqua di uno stagno nel Kansas, mentre Lindbergh sorvolava l’Atlantico.
La prima volta che mi alzai da terra ero sdraiato sul pavimento freddo di una cucina e non avevo più lacrime da piangere. Debuttai il 25 agosto del 1927 alla Fiera ortofrutticola di Pawnee County, a Larned. Da quel giorno fui una cometa celeste che accese l’immaginazione di milioni di persone. Dalle fiere passai ai teatri di varietà. Cominciai a usare scenari invisibili: scale a pioli, altalene, funi. Il mio numero finiva sempre con una passeggiata aerea sulle teste del pubblico e un lungo applauso. Ma non durò molto. Il resto furono cadute nel vuoto ed emicranie.
A Chicago, dicono, uno che mi somigliava trafficò in bische, tangenti e scommesse clandestine e nel 1937 inaugurò un locale notturno, il Mr. Vertigo, con indosso uno smoking bianco e scarpe di vernice. Da allora fui avvistato alle corse dei cavalli, sul fronte della seconda guerra, in un bar di Boston, in una fabbrica di pane, in una clinica per alcolizzati, in una lavanderia a gettone… Ma solo per riconoscere che si è tutti Bambini Prodigio e Mister Capogiro. E che non serve nessun dono per sollevarsi a mezz’aria. Basta toccare il fondo e imparare che non si può avere niente in cambio di niente per smettere di essere se stessi, lasciarsi svaporare nella scrittura e pesare meno di nulla.



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