Sono un fuoriuscito, un emigrato, un terremotato di Gibellina. Imparai il meccanico a Salemi, poi partii per la Lombardia, per la Svizzera. Lavorai nelle cave di Meirengen, vicino Basilea. Mi sposai, ebbi figli, incanutii nella faccia e nelle mani, vulnerato dalla malaria della nostalgia, dal colera della memoria.
Ma lo spaesamento peggiore fu il ritorno. Un viaggio nel disastro. La pena di un’isola ora ricoperta di gelsomini neri, di lava di marmitte e di tritolo, dalle architetture del saccheggio e della devastazione. Un sudario di calce al posto del ricordo. Terra di massacro e terra massacrata. Un paesaggio di demenza ciclopica, di sconquasso: cementizio, petrolchimico, barbarico. Un dialogo disperato con l’ansia divorante delle madri, con uomini e luoghi trapassati. Questo inoltrarsi nella rovina; questo chiedersi cos’è successo; questo essere destinati a ripartire…
Isola odiosamata, svenduta a prezzo di costo ai tanti gesuiti e bestie da soma del potere, bagnata da un mare dissacrato, offesa senza redenzione da questo prosperare rovinoso di olivastri.
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