Da vecchi anche la memoria può farsi colonia penale. Si comincia col sognare le spiagge praticate in gioventù e si finisce col parlare a una foto tra gli scaffali.
Il presente è tutto in questa nostalgia. Di ciò che si è avuto e di ciò che manca. Ma c’è sempre tempo per guarire dalle cardiopatie croniche del ricordo e dell’assenza. Pure per un grasso e solitario redattore di ricorrenze letterarie in un giornale filonazionalista come me.
Può bastare un rigo di Balzac o di Daudet o di Bernanos, un incontro con due ragazzi pieni di passione politica e di sdegno verso ogni dittatura, un colloquio con un medico in una clinica talassoterapica su quante personalità diverse possono abitare un uomo e prendere, volta per volta, il sopravvento.
Per chi non mi ha mai conosciuto, sappia che scendevo al Café Orquídea ogni giorno alla stessa ora. Arrivavo con un filo di sudore per il collo e il fiato grosso e ordinavo solo limonate zuccherate.
Portavo un cognome d’origine ebraica ma non sono mai riuscito a credere alla resurrezione della carne. Sostenevo d’essere perseguitato dall’idea della morte da quando nacqui figlio di un agente di pompe funebri. Finché… finché non barattai la mia malinconica pinguedine con un altro io egemone che si impose nella confederazione delle mie tante anime. Con un nuovo passaporto. Per elaborare finalmente il lutto di me stesso. E rivoltarmi contro l’ordine omicida del mondo. E pentirmi dellavara discrezione tenuta per tutta la vita.



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