Avevo piccole mezzelune sugli zigomi, come impronte di ferri di cavallo, e la pelle rovinata dallo zucchero e dalle pasticche di menta, tranne che sulle guance. Forse per questo il mio alito sapeva sempre di un liquore alla frutta, ma nell’insieme mi mancava qualcosa e anche i capelli ondulati erano buoni solo per metà. Eppure dicono che avevo il dono di riempire il niente che alcuni uomini si portano dentro perché lo conoscevo bene.
Mio padre era morto schiacciato dalla folla durante i tumulti razziali di East St. Louis e lo stesso giorno avevo visto mia madre bruciare insieme alla nostra casa. Nell’incendio, una scheggia di legno doveva essere penetrata nella mia bocca di bambina e aver preso posto da qualche parte sotto l’ombelico perché il suo fuoco non si spense mai.
Nonostante la smania d’amore che mi comunicava la Città di acciaio lucente e silenzi avvelenati nella quale abitavo, a diciassette anni la vita mi era già insopportabile. La mia storia sarebbe stata nerotriste come un blues, come la nuova musica che invadeva le strade. Avrebbe seguito lo stesso ritmo tragico e sfrontato, e rovesciato chiacchiere su chiacchiere nel quartiere.
Ora il mio volto fiero e misterioso è una fotografia sulla mensola di un camino, in un appartamento di Lenox Avenue. Lì dentro, vive l’uomo che mi ha uccisa e la donna che ha tentato di uccidermi una seconda volta e di sfigurarmi il viso anche da morta. Il primo non fa altro che piangere. L’ha fatto per gelosia, forse. O perché durasse in eterno il desiderio che gli provocavo. La verità è che non tollerava più il vuoto dei suoi cinquant’anni e delle sue giornate passate a vendere cosmetici. Diceva che per me era rinsavito d’amore, e non impazzito. Sua moglie, invece, che ora tutti chiamano Violent e non Violet, quando torna dal negozio di parrucchiera continua a guardare la mia foto e a parlare con me.
Per tutti il tempo è il vinile graffiato di un vecchio disco, una casa piena di gabbie vuote per gli uccelli coperte da un panno.



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