Di me si seppe quando le lucciole erano scomparse da un pezzo, e il sorriso complice e colpevole dei furbi già abitava gli uomini di potere, e gli imprenditori che accumulavano e si espandevano, e gli adulati e adulatori del patto lombardo-veneto che «con qualche tenebrosa radice meridionale» edificavano gli imperi futuri. Ebbi i panni di un ingegnere petrolifero e il corpo di un intellettuale borghese e vulnerabile, «incapace di offendere», ma in sorte ricevetti anche l’assillo dell’identità, della sua frantumazione, l’ossessione di essere doppio.
Ero Carlo ed ero Karl: uno padrone e l’altro servo (ma il padrone era sottomesso e il servo libero); uno ipocrita e l’altro buono; uno sicario e l’altro vittima. Ero un ultimo uomo diviso e da cattolico di sinistra senza illusioni, sarcastico e un poco opulento, attraversai la mia degradazione e la perdita di ogni equilibrio come un poema morale nella tragedia storica di un’Italia devastata dal progresso neocapitalista.
Appartenevo a una famiglia benestante e il mio cattolicesimo era un’abitudine dell’infanzia vissuta in un tempo senza televisione, un tempo di stufe e scaldaletti, in cui si sentiva un odore di pietra in inverno, e non si sprecava nulla, e gli adulti erano giganti, e l’Italia ancora intatta. Da giovane mi muovevo come un ragazzo sgraziato e comune ma imparai presto la reticenza degli esseri umani, la loro straziante sensualità, il desiderio esclusivo, la sua totalità deturpata dal Modello Bifronte e Assassino dell’Imitazione e del Conformismo, la furia indecente e drammatica del sangue.
La mia fu la dissociazione di un intero mondo invaso dalla brutalità, dall’ansia, dalla nevrosi e dal vuoto, «dove gli occhi non sanno più dare uno sguardo non dico di amore, ma neppure di curiosità o simpatia», un mondo di piccoli borghesi senza destino con i suoi omologati contorni e il brulichio infernale di un girone dantesco.



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