Il pensiero è come un’ulcera varicosa alla gamba. Prude, fa male. Così presi a grattarmi sino a fare un buco nella mia tuta azzurra di membro del Partito. Avevo trentanove anni, capelli biondo chiaro e la faccia accesa da intermittenti rossori perché sapevo che ogni frase che avessi pronunciato sarebbe stata udita e ogni movimento visto. Di mestiere falsificavo il passato al Ministero della Verità. Lo mettevo al corrente, raschiando il palinsesto della Storia per riscriverla. Fino allora ero stato ortodossamente misogino dopo un matrimonio andato a male. Ma il mio primo psicoreato fu quello di entrare da un robivecchi a comprare un quaderno antico color crema dalla carta levigata e scriverci sopra, in maiuscolo, abbasso il grande fratello; il secondo d’affittare una stanza per farci l’amore con Julia. Abbastanza per cadere in un pozzo della memoria, dove abitano solo i topi, e non accorgermi più dello squallore di una società di pensabenisti e di una neolingua di limitate parole. Per smettere di badare alle marcette militari e alle voci dolciastre diffuse da teleschermi che non possono più essere spenti, o agli slogan che ripetono che la guerra è pace, la libertà è schiavitù e l’ignoranza è forza. Per vaporizzare ogni desiderio giurando che due più due fa cinque senza sentirsi defraudati di niente.
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