Per nome ho una negraggine, uno dei tanti participi dell’abisso, l’eco di una storia secolare di cadute. Porto baffi a cespuglio, barbetta, camicia di nylon, pantaloni tergal e stivaletti di vernice. La mia risata è grassa, lo sguardo di turista e la voce da camaleonte, e sono capace di incantare chiunque senza rimedio.
Vendo carbone al mercato, ma soprattutto regalo parole, come le hanno regalate a me i vecchi: parole per ogni occasione, parole per ridere e per piangere, parole per sopravvivere, parole per resistere. Sono l’ultimo dei cantastorie, l’estremità di un filo che sta per essere reciso.
Quando annegai tra le radici di un tamarindo, con una schiuma di sillabe rosa sulle labbra e gli occhi aperti, molti pensarono a una carnevalata, a una faccenda di montambanchi e ubriachi. Le indagini della polizia sulla mia morte non condussero a nulla. Ma io lo ripetevo spesso di trovarmi tra la foresta e la rovina, in un punto in cui le cose corrono e si perdono: un crocevia del tempo, tra l’oblio del passato e la violenza del futuro. Dicevo che la miseria disegna sempre allo stesso modo. E che la mia voce, lentamente, si spegneva.



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