L’ultima volta che strizzai gli occhi a mia figlia fu mentre scaricavo la spesa sul nastro rotante di un supermercato di South London. L’insidia, per me, si nascondeva in gesti ordinari, come quello di chiedere una busta alla cassiera.
Quando mi voltai, Kate era sparita. Aveva tre anni, una tutina verde e un asinello di pezza in mano. Da quel momento, ogni normalità per me esplose, i cronometri smisero di correre e io fui espulso dal tempo assoluto che aveva fino allora regolato la mia vita.
Tutto rallentò, e divenne simultaneo: il fossato di silenzio che mi divise da mia moglie; il suo ritiro in un cottage pieno di matite e di spartiti; la tragica follia di un amico; la musica del caso che mi aveva fatto scrittore per ragazzi e membro di una commissione governativa incaricata di redigere un manuale di puericultura; il giorno in cui i miei genitori avevano deciso in un pub di portare avanti la mia gravidanza; e quello in cui avevo comperato un walkietalkie per una figlia che non sarebbe più tornata. Come se si potesse ancora comunicare in questo labirinto di dolore e possibilità. Tra il tempo che finisce e quello che deve ancora iniziare. Tra l’assenza del tempo dell’infanzia e la necessaria comprensione adulta che accettare una perdita è accettare il tempo.
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