Se fossi diventata una scrittrice, disse di me mio nipote molti anni dopo la mia morte, avrei calpestato un gran numero di scrittori fino a farne uscire la merda… Avevo sempre fatto quello che avevo voluto. Lasciai credere a tutti che fumassi anche l’oppio, ma senza dipenderne. Le mie storie erano tutte storie di ribellione, e disubbidienza, storie di quando il sorgo cresceva alto e infinito nei campi come un mare di sangue, e le notti erano di un grigio uva, e il mondo era abitato da banditi leggendari e da spiriti eroici. Storie di scarpe rotte, e mantelli di paglia, e muli neri… Io avevo delle belle labbra vermiglie, i seni candidi e i piedi più piccoli e a punta dell’intero villaggio di Gaomi. Piedi che sembravano due sparuti uccellini perché me li avevano tenuti fasciati sin da bambina rompendomi le ossa e ripiegando quattro dita sotto la pianta.
I vecchi ancora si ricordano di quando fui promessa sposa a un ricco lebbroso, e dei nastri di seta rossa che avevo legati alle caviglie, e della mia treccia lucente sulle spalle. Raccontano del portantino che mi rapì e che poi divenne un comandante, e della distilleria che avevo rilevato. Rievocano il giorno in cui mi strofinai il viso col sangue di un uomo scorticato vivo da un esercito invasore e mi lavai nel vino e ordinai a mio figlio di berlo. E l’ora in cui mi affrettavo verso un ponte, trasportando con i bilancieri due panieri di focacce qia per gli uomini in attesa dei camion nemici. Indossavo una camicia rosso cupo e avevo i capelli corvini impomatati quando il suono di una mitragliatrice si confuse con il fruscio delle spighe, e io mandai un grido felice, e tutto assunse un solo colore.



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