Le donne che mi hanno frequentato ancora raccontano che quando sbattevo le palpebre facevo vento. Di certo, fui per anni il più bel ragazzo di Catania, d’una bellezza che le costringeva a impudici trasalimenti e che la Chiesa considerava diabolica e gli altri uomini oggetto d’insostenibile invidia. Olivastro di pelle eppure pallido d’un macero interiore, simile a classiche sculture di giovani atleti e come loro malinconico e alla fine impenetrabile nella mia perfezione, sognavo la carriera diplomatica e un posto all’ombra della grande e materna Capitale. Invece dovetti tornare alla mia isola dove tutto è sì finzione, ferma adolescenza e paradosso, ma anche tarlo e interesse.
Del mio scandalo di non potermi unire a una donna tuttora se ne parla nei crocicchi della via Etnea. Come della tragica fine di mio padre, che morì nel letto di una prostituta durante un bombardamento per riscattare l’onore virile della nostra famiglia.
Nemmeno la rovina d’una nazione immatura e impotente, abitata da facili nausee ed ebbrezze, priapi col fez e la camicia nera, ipocondriaci ossessivi e abili notai, è riuscita a placare la sconsolata amarezza di tanta vergogna.



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