In un giorno di pioggia, scesi da un vapore inglese al molo di Alcantara, dopo una traversata oceanica. Era la fine del 1935. Io, medico monarchico e vate neoclassico, o piuttosto solo un uomo brizzolato e rinsecchito, tornavo dal Brasile per rendere omaggio funebre al poeta di cui ero stato ombra ed eteronimo. Ma il mio viaggio si trasformò in una tarda educazione sentimentale e politica.
In una Lisbona convalescente e triste come un fado, gonfia della rarefatta atmosfera del salazarismo, per me ci fu ancora una rimanenza di tempo per sfiorare la vita da cui mi ero sempre volontariamente ritratto. E incontrare, dove il mare è finito e la terra attende, una struggente cameriera d’albergo che portava il nome della mia musa ispiratrice, innamorarmi di una donna dal braccio paralizzato per via di un dispiacere, assistere al fallimento di una rivolta di marinai in partenza per la Spagna libertaria e dialogare con il fantasma di Pessoa. Fino alla scadenza concessami. Perché per morire ci vogliono nove mesi, come per nascere. Quanto basta per il totale oblio.
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