Gli scacchi li avevo imparati nel seminterrato di un orfanotrofio, la Methuen Home di Mount Sterling, in Kentucky. Da Shaibel, un custode grasso che sapeva di muffa. Alla luce di una lampadina senza paralume, accanto alla caldaia, seduta su una cassetta del latte.
Avevo otto anni: una faccia insignificante, tonda e lentigginosa, il naso piccolo, i capelli scialbi. Solo gli occhi mi sbattevano veloci, di notte, su una scacchiera di ombre proiettate sul soffitto. Per interminabili partite.
Ero brava a ricordarmi le cose: la sequenza delle varianti, le aperture, i finali. Tatticamente sarei stata una giocatrice strepitosa, che in Russia avrebbero chiamato con rispetto Lizaveta. Ma il mio talento era ancora più nascosto. E pieno di coraggio. Perché io capivo la forza silenziosa dei pezzi su un tavolo da gara, la loro tensione, la trama dei rapporti umani che disegnavano con spietata esattezza.
Avrei sfidato al gioco dei re tutto il mondo adulto e maschile che mi circondava, nonostante le pillole verdi che mi davano per rendermi più disciplinata e mansueta e regolarmi due volte al giorno l’umore.
Avrei osato un assalto di pedoni su entrambi i fianchi, sopportando tutto lo sgomento, la sofferenza e la disperazione di questa estenuante imitazione della vita. E solo per raggiungere l’ottava traversa. Per cambiare natura. Per farmi regina e vincere per sempre il sortilegio della mia infelicità.
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