Il mio sorriso si spegne agli angoli della bocca; non ho più la forza di un giovane scoiattolo. Le cose mi sfuggono continuamente, è impossibile definirle con esattezza, cristallizzarne i limiti, imbrigliarle con le parole; la loro complessità e l’infinita catena di rimandi mi mettono continuamente in scacco. Sia che tenti di isolare con lo sguardo un’onda dalle altre, sia che provi a descrivere lo scomodo e scivoloso amore tra due tartarughe.
Anche la pancia di un geco può trasformarsi in una mappa astronomica; un fischio di merli in una partitura di pause; un negozio di formaggi in un museo di innumerevoli stanze. Non resta che tacere, dignitosamente, consumando fino in fondo la tragedia di sapere che nulla della propria esperienza si può trasmettere.
L’uomo-telescopio è il mio ultimo e definitivo autoritratto. Quello di un enciclopedista senza requie, di uno che non si ama, di un Monsieur Teste insofferente degli altrui e propri sbagli e votato a un interminabile e fallimentare inventario dell’atomico disordine del mondo.
Una conclusione che ha il sapore di una resa triste e a cui è precluso ogni stoicismo. Ma che è anche il compimento di un portentoso elogio della varietà.



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