Con le lancette e gli ingranaggi ci sapevo fare. Ma a Strelka, il mio paese di anitre e di capre, di orologi ce n’erano pochi. Solo quelli del rabbino, e uno fermo sul campanile. Eppure al mio laboratorio il lavoro non era mai mancato. Riparavo un po’ di tutto. Anche i trattori del kolchoz; anche i fucili.
Ma Strelka non esiste più, come tanti altri paesi, e ora non sono che un soldato disperso dell’Armata Rossa, con l’ordine di inoltrarmi in questo pantano di strazio che è divenuta l’Europa e di sabotare tutto quello che posso. Lo strano è che spetti a un problematico orologiaio come me rimettere in moto il tempo interrotto dalla guerra e dal genocidio nazista. Il mio nome sta per consolatore, ma io non ho mai consolato nessuno. Sono solo un profugo che attraversa il territorio nemico unendosi alle sgangherate brigate di picari e di violinisti allegri e stralunati che incontro, irregolare tra irregolari, un senzapatria che vorrebbe riscattare nell’amicizia e nella fratellanza tutto il male del mondo. Ho addosso una malinconia piena di dubbi, ma sono finalmente deciso a fabbricarmi il destino con le mie mani. Non smetterò più di sillabare a me stesso e agli altri un breve e decisivo interrogativo morale: «Se non ora, quando?»



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