Vi basti sapere che mi chiamo Juan Pablo Castel e sono un pittore e un assassino. So per mestiere che gli esseri umani possono essere paesaggi, scogliere, finestre, navi che partono, ma il più delle volte sono legno marcio: invidiosi, grossolani, petulanti. Vanitosi anche della propria modestia. Un’argilla di superbia e di vanità che ho sempre detestato.
Tutta la vita l’ho vissuta dietro a un muro di vetro, cercando invano un mio simile dall’altro lato. Quando finalmente ne ho scoperto uno, per la disperazione di non poterlo toccare per davvero, il vetro si è trasformato in pietra, e il muro in un tunnel, e io in un uccello, con aspre grida di uccello chiuse nella gola. Ma nessuno dei miei amici se ne è accorto. La gelosia per Maria Iribarne mi ha assediato con geometrica violenza. Del resto perché, mi sono sempre chiesto, la realtà non dovrebbe essere tortuosa e distruttiva come i nostri pensieri?
Per molte notti ho sognato di camminare sui tetti di una cattedrale e che la mia stanza fosse più vasta di Buenos Aires, senza un confine. Ho attaccato briga nei bar dell’Avenida Leandro Alem, condotto donne depravate nel mio studio e scritto lettere feroci e disperate. Ma non è valso a niente. Seduto sotto un albero gigantesco, su una panca dei giardini della Recoleta, ho aspettato inutilmente un’altra possibilità.
Così ho finito per fare la cosa più insensata di tutte: uccidere l’unica persona che aveva compreso la mia pittura.
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