Da qualche tempo lavoro in una piccola locanda di una qualsiasi provincia dell’Europa occidentale. Dietro al banco. Ho i capelli legati all’indietro, un grembiule stretto in vita e mani lunghe, affilate. Occhi indefinibili e fianchi di giunco. E un nome che non è mai appartenuto a nessuna donna. Ti servo un caffè o un calvados, e ascolto quello che hai da dire, se ne hai voglia. Non ti interrompo. Una stanchezza irrimediabile mi segna il volto. La stanchezza di chi non può più garantire alcuna felicità a nessuno, e per sé ne ha perso ogni attesa.
Vivo in silenzio per il silenzio. Per questo sono così popolare: perché non desidero mai parlare di me. Di me si sa solo che sono straniera e vedova: una fuga illegale dalla Boemia alle spalle, e il profilo di un marito che sbiadisce dalla mia testa giorno dopo giorno, insieme al nostro amore. Mi resta soltanto una foto sul passaporto, e appena il ricordo di due natali su undici e cinque capodanni su dodici. Se soltanto potessi riavere i miei diari e le mie lettere rimasti dall’altro lato del confine forse potrei recuperare il corpo perduto del passato. Ma l’oblio è come una marea. Prima o poi ti riempie d’acqua i polmoni. Ti insegna che bisogna mettersi in viaggio per ritrovare i propri ricordi. Ma anche che la memoria del disgusto è più forte di quella della tenerezza.
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