Rue Simon-Crubellier, numero 11. Parigi, naturalmente: xvii arrondissement. Immaginatemi come un condominio senza facciata di dieci piani e dieci stanze per piano. Una bibbia di cemento; un quadrato di novantanove parti. Manca qualche minuto alle otto di sera del 23 giugno del 1975 e voi potete iniziare a muovervi da un ambiente all’altro come il pezzo del cavallo tra le case di una scacchiera, a l.
Si comincia dalle scale, fra il terzo e il quarto piano. Da lì in poi è tutto un elenco di camere e salotti, cantine, terrazze, spalliere di rame, comò, pianoforti scordati, scrivanie impero, attaccapanni, carte geografiche, nature morte, agende di cuoio, erbari, libri e gatti, casse di champagne, portaombrelli, tele e manifesti, un ascensore guasto, caraffe d’acqua e teiere, sottopiatti di ceramica, burattini indiani, paralumi di seta… Una lista incessante di inquilini e di storie, da quella dell’acrobata che non volle più scendere dal trapezio alle avventure del vecchio domestico che accompagnò il padrone nei suoi viaggi. Un insieme finito di schegge infinite. In equilibrio sulla linea tra l’eterno e l’effimero, tra il tempo che si ricorda e quello che scompare, come nel programma del miliardario Bartlebooth che abitava l’ultima stanza e dedicò l’esistenza ad acquerellare marine e a farne puzzle di legno, con la complicità di un artigiano, per poi ricomporli e infine distruggerli nello stesso ordine, affinché non restasse nessuna traccia o prova del suo passaggio sulla terra. Solo la misteriosa insignificanza di tutto.
Un puzzle da sovrapporre alla brulicante commedia umana che mi occupa. Incastro ed enigma, micro e macrocosmo, tentativo disperato di redigere le istruzioni per il gioco più difficile, la vita. Al quale mancherà sempre una tessera.



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