Seppure sia alto e magro, a tutti ho sempre dato l’idea d’una rustica robustezza. Ho pochi capelli e trentacinque anni; le guance rasate con cura, ma gli occhi e il viso senza espressione. Sono uno di quegli operai che hanno una sola faccia. Solo le mani muovo veloci, mentre parlo sgrammaticato e insacco la testa fra le spalle: rincorro gli spropositi del dialetto e il trionfo dei proverbi, disegno nell’aria gli oggetti del mio mestiere, e i cantieri, i ponti sospesi, le guglie dei derrick. Perché io sono un solitario che mena la vita dello zingaro: l’Africa, l’Alaska, il basso Volga, l’India… A Torino proprio non ci so stare; dopo un po’ mi viene una smania che è come un dolore. E allora chiudo la mia camera monastica, saluto le due vecchie zie, mi appendo alla cintola una chiave a stella, come un cavaliere d’altri tempi o un dio greco, e parto.
Certo montare gru, carri-ponte, pilastri, duellare con ferri e bulloni, è una strana professione. Ma per me la libertà che porto nel nome di battesimo è tutta nell’amare il mio lavoro e nell’averne piacere. Ogni tanto torno a trovare i miei tralicci, per vedere se reggono agli inverni. So, ho imparato, che quando una cosa «è studiata bene viene bella per suo conto».



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